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L’altro ieri ho visto su internet l’ultima puntata di Anno Zero in cui il commercialista di Berlusconi (alias, Giulio Tremonti) che a destra spacciano per economista non avendo di meglio, ci illuminava sui pericoli presenti e futuri della globalizzazione.

Suoi interlocutori erano Fausto Bertinotti, Antonio Boccuzzi (l’operaio sopravvissuto all’incidente della Thyssen e ora candidato per il PD, che bravo!) e Matteo Colaninno.

Il Fausto e GT andavano d’amore e d’accordo e si vedeva che facevano una fatica enorme a trovare punti di disaccordo. Chissa’ che non li vedremo assieme prima o poi, il comunista e il condonista.

Be’, il tema non e’ nuovo. Tutti ci ricordiamo il movimento No Global e le sue rivendicazioni. E ci ricordiamo anche il G8 di Genova. Ai quei tempi i principali commentatori economici e formazioni politiche di centro e di destra trattavano con sprezzante ironia quelle preoccupazioni.

Oggi tutti prendono molto sul serio le parole di GT e il CORSERA vi dedica ben due editoriali di fila, prendendone piu’ o meno le distanze, ma facendo passare il fiscalista per un fine intellettuale. Oggi il centro-destra vuole imposessarsi di questi temi e farli propri, proponenedo le sue soluzioni, facendo l’occhiolino alle paure della piccola borghesia e degli imprenditori-nani. Improvvisamente queste sono cose ben dette, o perlomeno da tenere in considerazione.

Quello che ci importa pero’, e’ di capire qual’e’ la diagnosi e quale la cura proposta. E qui cominciano i dolori. Da un lato perche’ la terapia e’ una presa in giro, come quelle pozioni che i ciarlatani vendevano nel far west per combattere tutte le malattie conosciute e sconosciute, e dall’altro perche’ il nostro Colaninno ha mostrato una pochezza sconfortante nel contrastare queste bizzarre tesi.

Ma focalizziamoci sugli elisir confezionati dal ciarlatano di Sondrio. Le idee sono vaghe e per questo incomprensibili.

Per prima cosa occorre precisare che la globalizzazione non e’ un fenomeno moderno. Vi rimando a questi articoli (1 e 2) per farvi un’idea di come l’espansione dei commerci mondiali abbia influito gia’ dal rinascimento, non solo sul benessere economico delle popolazioni ma anche sulla diffusione delle malattie. Gia’ nel XVIII secolo le nazioni del mondo erano cosi’ interconnesse da rendere necessario lo sviluppo di un sistema di misura internazionale per regolare i commerci e i prezzi.

Quello che e’ veramente nuovo oggi e’ la portata del processo e la velocita’ delle transizioni. I trasporti e le comunicazioni moderne consentono di mobilizzare merci, persone e informazioni con costi, velocita’ e sicurezza diverse centinaia di volte superiore a quella a cui eravamo abituati solo 100 anni fa. Chiaramente ogni rivoluzione tecnologica fa le sue vittime e scatena paure, che non si devono sottovalutare. Chi subisce la globalizzazione sono i piu’ deboli, quelli che hanno avuto meno occasioni nella vita, e che oggi sentono di non avere strumenti per competere a livello mondiale. Fino a qualche hanno fa eravamo leader mondiali nella produzione di mattoni. Oggi i cinesi ci surclassano per costi e per quantita’ di prodotto.

Secondo Bauman, (“Dentro la globalizzazione”) queste paure generano meccanismi regressivi di “localizzazione” che si manifestano nella ri-scoperta delle comunita’ locali e delle tradizioni, in un rifiuto’ della modernata’, nella chiusura verso l’altro, in una costante e irrazionale diffidenza sociale, in un mal determinato senso di insicurezza.

Non stupisce che l’elisir economico di GT, amico intimo della Lega Nord con i suoi richiami alla tradizione locali, allo “statevene a casa vostra”, si collochi in questo filone localista.

Ci viene proposto di imporre dazi e balzelli alle merci importate, ridurre gli scambi e i commerci con i paesi in via di sviluppo, magari mettere delle quote, come per il latte in Europa. Ma solo temporaneamente, per prendere tempo. Chiaramente non ci viene indicato per quanto tempo sarebbe necessario restringere l’accesso dei nostri mercati, chi dovrebbe, assieme all’Italia fare questa scelta, e cosa dovremmo fare, in questa supposta tregua della competizione globale, per metterci al passo. In assenza di queste indicazioni l’elisir di Tremonti e’ una pozione avvelenata, che ci fara’ accumulare ulteriore ritardo e serivra’ a proteggere ancora di piu’ chi sta gia’ nel fortino delle rendite di posizione per poi precipitare improvvisamente in un baratro ancora peggiore di quello che egli prospetta per l’oggi. E’ una versione camuffata della svalutazione della liraper favorire le esportazioni ai danni del debito pubblico attuata dai governi Craxiani degli anni ’80. Ancora oggi paghiamo i meravigliosi effetti a lungo termine di questi provvedimenti.

Se fossi stato a quel dibattito televisivo avrei volentieri fatto notare al Grande Stratega del centro-destra che l’India e la Cina assieme fanno 3 miliardi di persone, circa 10 volte la popolazione americana e 4 volte la popolazione Europea. I loro mercati crescono ad una velocita tra il 5% e il 10% annuo mentre in Europa e Stati Uniti, negli ultimi anni si brinda se si raggiunge il 2%. Se India e Cina rispondessero alla nostra politica dei dazi con la stessa moneta alla lunga seremmo noi a pagarne le salate drammatiche conseguenze. Mentre noi ci gongolavamo con le invettive di Bossi e Tremonti contro i cinesi, i tedeschi, gli inglesi e gli americani aprivano imprese e sviluppavano commerci con quei mercati in espansione.

Avrei anche ricordato al nostro GT che i dazi europei sui prodotti tessili cinesi sono stati eliminati solo da qualche anno e durante quel periodo non c’e’ stata certo una rivoluzione tecnologica o commerciale significativa del settore in Italia.

Avrei volentieri detto che il modo migliore (l’unico?) di difenderci dall’invasione asiatica e’ di correre piu’ forte di loro tramite la ricerca e l’innovazione e la qualificazione del nostro capitale umano. Ma in Italia un diplomato guadagna come un laureato e questo e’ il segno piu’ tangibile del fatto che nel nostro paese le competenze tecniche non sono un valore richiesto dal sistema produttivo.

E allora avanti, continuiamo a competere con i cinesi nella produzione di mattoni, e mettiamo anche i dazi per far finta che noi siamo piu’ bravi a cuocer la terra.

Ma almeno siamo consapevoli che questa strategia e’ come metter sull’uscio di casa un sacchetto di riso per arginare la marea che avanza.

La retorica recente, dopo numerosi decenni di scontro tende ad indentificare il datore di lavoro (il proprietario dei mezzi di produzione) e il lavoratore dipendente, il prestatore d’opera, sotto lo stesso ventaglio di bisogni e ambizioni, trascurando le disuguaglianze economiche sempre piu’ macroscopiche che si traducono inevitabilmente in disuguaglianze di opportunita’ e liberta’.  Leggi il resto dell’articolo..

«Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio». Dei Delitti e delle Pene, Cesare Beccarla, 1764.

Il 18 dicembre 2007 l’ONU ha approvato il testo della moratoria universale contro la pena di morte promossa da una iniziativa del governo italiano. La maggior parte delle moderne democrazie hanno espresso parere favorevole.

La cultura giuridica italiana ha una lunga tradizione di rispetto della vita umana. L’italiano Cesare Beccaria propose per la prima volta un approccio razionale al problema nel suo trattato, Dei Delitti e delle Pene, 1764.

La società, nella visione di Beccaria, ha il diritto di difendersi dal crimine perché questo rompe il patto sociale sul quale la convivenza civile si fonda. Questa e’ l’unica giustificazione perché lo Stato violi la libertà individuale. Egli sosteneva che l’obiettivo ultimo di ogni sistema giudiziario e’ la riduzione del crimine, il mantenimento dell’ordine sociale e la minimizzazione del danno una volta che il crimine e’ stato commesso. Il metodo più efficace per ottenere questi scopi, secondo il giurista italiano, consisteva nel massimizzare la certezza della pena, non la sua severità.

Nel corso della storia la severità della punizione inflitta al condannato e’ gradatamente diminuita assieme ad una costante riduzione della violenza nella società; prima della rivoluzione francese e il discorso di Roberspierre contro la pena di morte, l’esecuzione era preceduta da torture e inumane sofferenze. La ghigliottina fu introdotta per ridurre il dolore connesso all’esecuzione della pena.

Gli Stati Uniti sono l’unica democrazia moderna che mantiene la pena di morte nonostante vi siano sostanziali prove della sua inefficacia come deterrente (JM. Shepherd, Deterrence versus Brutalization: Capital Punishment’s Differing Impacts Among States, MICHIGAN LAW REVIEW). Il problema della criminalità negli Stati Uniti e’ particolarmente sentito. Nonostante il 5% della popolazione mondiale vive negli USA, il 25% dei carcerati e’ detenuto in questo paese. Eppure la reintroduzione della pena di morte non ha affatto risolto il problema: il tasso di crimini violenti e’ rimasto sostanzialmente invariato e gli stati dell’Unione che hanno reintrodotto la pena nei loro ordinamenti hanno registrato il più alto tasso di omicidi. (http://www.deathpenaltyinfo.org/article.php?did=168).

Il granducato di Toscana fu il primo stato al mondo ad abolire la pena capitale e la tortura nel 1784. Il testo della legge di abrogazione recita cosi’: “La punizione deve raggiungere lo scopo di educare il criminale, poiché egli e’, come ognuno, figlio della società”.

La litania di un paese impoverito, con l’acqua alla gola, il lamento di una società stanca e demoralizzata, la crisi della quarta settimana sono entrati nel vocabolario politico quotidiano. Banca d’Italia, attraverso il Dott. Draghi, ci fa sapere che i salari italiani sono tra i più bassi d’Europa; Montezemolo ammonisce i politici: “l’Italia é in crisi, non mentite agli italiani”; il partito di Berlusconi come al solito, ci racconta la storia delle tasse che hanno messo in ginocchio l’Italia, e fa l’occhiolino al suo elettorato di SUVviti; Gli economisti ammoniscono che la spesa pubblica é in continuo aumento e che lo stato si mangia la nostra fetta di ricchezza. Nel frattempo l’Italia del Centro-Nord si avvicina alla piena occupazione e i salari non crescono. Ci dicono che la produttività del paese non aumenta e allora anche i salari sono fermi. Giusto. Ma siamo sicuri che questo sia tutto? Che non ci sia altro da dire? Che qualcosa in Italia non venga costantemente oscurato? Basta farsi un giretto per il centro di Milano, tra negozi di lusso e fichetti, manager, e signore in passeggiata per farsi venire qualche dubbio. Non ci si spiega perché, se tutti veramente siamo in crisi, i prezzi continuino a salire. C’é qualcosa che non torna nel nostro discorso pubblico. La crisi é per tutti o solo per qualcuno? Se é vero che lo Stato si mangia la nostra ricchezza, la mangia per tutti uguale o per qualcuno la mangia di più? In Italia i soldi, sono finiti o sono spariti? Nel senso che qualcuno li ha ma non ce lo vuole far sapere? E perché le vendite di beni di lusso (gioielli, yacht, auto di pregio, design e arredamento) sono in continua inarrestabile crescita?

Allora non resta che fare un giretto in rete per cercare qualche risposta, certamente parziale.

La prima scoperta interessante é questa. Non tutti in Italia si sono impoveriti. Anzi, c’é chi ha tratto da questi anni di lacrime e sangue notevoli benefici economici. Oggi il 10% degli Italiani possiede il 50% della ricchezza nazionale e i loro patrimoni sono in continua inarrestabile crescita. Gente produttiva, si dirà. Che la produttività media di un paese non aumenti non significa che questo sia vero solo per alcune selezionate categorie. D’altronde il 10% delle famiglie si intasca il 40% del reddito prodotto: segno che chi ha fatto la scelta giusta viene premiato dal “Mercato”. Ineccepibile.

Eppure, già dal ’95 le disuguaglianze di reddito in Italia erano solo leggermente inferiori a quelle degli Stati Uniti, il Paese con maggiori disuguaglianze economiche, e superiori a quelli di Regno Unito, Francia, Spagna, Australia, Irlanda. I paesi con reddito più omogeneo sono i quelli scandinavi (Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia), tutti paesi che hanno visto il loro PIL e la loro produttività crescere sostanzialmente negli ultimi 10 anni. Insomma, in un paese dove la meritocrazia e’ un piatto esotico dovremmo avere meno disuguaglianze economiche rispetto a paesi in cui la retribuzione e il reddito sono maggiormente ancorati alla produttività e non alle rendite. Eppure cosi’ non e’.

Un recente rapporto di Banca d’Italia ci rivela che i) la ricchezza in abitazioni delle famiglie italiane è pari a quattro volte il reddito disponibile, un valore simile a quello del Regno Unito, inferiore a quello della Francia e superiore a quello di Germania e Stati Uniti; ii) Le attività finanziarie sono quasi quattro volte il reddito delle famiglie in Italia, un rapporto di poco inferiore a quello degli Stati Uniti e del Regno Unito ma superiore a quello di Germania e Francia.

Chiaramente c’è una ricchezza che non si misura solo coi redditi da lavoro ma che sta nelle cas(s)e degli italiani, nei patrimoni familiari e nelle rendite ed è forse sufficiente ricercare disomogeneità nella distribuzione di queste ricchezze per spiegare gran parte della disuguaglianze economiche del nostro paese.

Chi sono i nuovi ricchi? Questo articolo dell’Espresso ne fa un identikit impietoso. Sono notai, commercialisti, avvocati, i grossisti, imprenditori del settore sanitario che approfittano di leggi medievali per fare profitti in mercati iper-protetti da regole d’accesso e regolazione dei prezzi che dir corporative si rischia di far complimenti (ricordate le “vibranti proteste” contro le class actions?), e che si sono avvantaggiati dell’indulgenza della destra per accumulare capitali illegali con l’evasione fiscale. Questa gente si mangia i nostri redditi. E non solo. Il privilegio é ereditario in un paese, il nostro, senza alcuna mobilità sociale. I figli dei figli dei notai fanno i notai, e così via e l’accesso alle professioni e’ rigorosamente ristretto (siamo matti, la competizione?). Ma non basta, recentemente La Repubblica ha riportato che il reddito di un laureato figlio di operai é tra il 20% e il 40% inferiore a quello di un laureato proveniente da una famiglia di professionisti o dirigenti, a parità di tutte le altre caratteristiche. Insomma carriera la fanno soltanto i “figli di..”

E poi ci sono le tasse. La progressività delle aliquote si è andata via via perdendo in Italia. Dal 1973 le classi di reddito sono passate da 32 a 5 (senza contare il tentativo di Mr B di ridurle a 2 nel 2004). Anche il rapporto tra lo scaglione massimo e quello minimo di imposta è sceso precipitosamente. Il peso relativo della pressione fiscale e’ via via sceso per i più ricchi mentre gli altri hanno pagato dolorosamente sempre di più.

Insomma queste differenze non sono generate dalla creativita’ e dall’iniziativa di individui piu’ propduttivi, efficienti, combattivi ma dal privilegio e da leggi feudali che proteggono questa moderna aristocrazia.

PS: Uno potrebbe chiedersi cosa ci sia di male che un imprenditore della sanità faccia un sacco di quattrini. Il male é questo: in quale paese liberale un imprenditore che vende un prodotto non viene pagato dall’acquirente ma dallo Stato? Il salumaio mi vende il prosciuttino e io mando il conto al mio vicino? Ma dove si é mai visto? É proprio per questo che in Lombardia i costi della sanità sono schizzati alle stelle da quando la regione ha deciso di accreditare un numero sempre maggiore di strutture private. E pensate a quello che succede in Sicilia per la stessa ragione. Due regioni così diverse accomunate da un analogo approccio alla salute pubblica (e ai privati interessi). Non voglio neanche discutere dei criteri di accreditamento. Poi accade che le statistiche nazionali ci raccontino che la spesa pubblica é in continua crescita, e a noi capita di pensare “all’esercito di fannulloni del comparto pubblico”. Anche a me, che venivo pagato 850 euro netti al mese quando facevo lo specializzando in Italia. E intanto gli imprenditori del comparto sanitario ingrassano con i soldi pubblici e ridono di noi.


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