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In questi giorni il dibattito pubblico si sta occupando di baroni, scandali giudiziari, e concorsi truccati. Il nostro paese produce meno laureati dei nostri competitori e la durata degli studi e’ esorbitante: in Italia ci si laurea a 30 anni, dopo piu’ di 9 anni dall’immatricolazione e circa 4 studenti su 10 sono fuori corso da oltre 5. Numeri impensabili in qualsiasi altro paese moderno. Anche il versante della ricerca non offre un panorama rasserenante. La nostra produzione scientifica e’ inferiore per quantita’ e qualita’ a quella dei diretti competitori internazionali. Anche per questa ragione le nostre Università’  faticano ad attrarre capitali privati. Perche’ siamo giunti a questo punto? E in che modo uscirne? Per saperne di piu’ clicca qui…

Cari amici,

Dopo lo sconforto per l’esito delle elezioni e’ bene recuperare il sangue freddo e tentare un’analisi del risultato ottenuto.

Io penso che siano stati fatti errori tattici dall’inizio della gestione Veltroni di cui non voglio parlare ora: non e’ il caso di inquinare il ragionamento scatenando una polemica tra veltroniani e anti-verltroniani, ci sara’ tempo in futuro. Ci sono cause piu’ strutturali sul tavolo a mio avviso.

Metto in fila alcuni fatti. Il Pd in Veneto e Lomabardia mette in campo come capilista Calearo e Colaninno, duri dirigenti di Confindustria, sperando di conquistare il voto degli artigiani e degli industriali. Nonostante questo il Pd prende in quelle regioni una batosta mostruosa.

Si dice che il nord è stanco di pagare le tasse al sud. Che bisogna ridare i soldi agli italiani. Ma il debito pubblico corre e gli sprechi, appunto, si sprecano. In fin dei conti Prodi aveva rimesso a posto i bilanci senza aumentare le aliquote (alcune sono diminuite): niente aggravi per i cittadini onesti, quindi. Hanno pagato solo gli evasori.

Ma si sa, il vero buco nero delle finanza italiane è la mafia. Nessuno di quegli elettori del nord arrabbiato crede in realtà che la secessione dal sud sia una strada percorribile (altrimenti avrebbero già chiesto il conto al loro capo, che la annuncia ogni sei mesi) e il taglio dei trasferimenti pubblici al sud provocherebbe un emigrazione di massa stile anni Cinquanta, e questo nessuno lo vuole.

Allora il nord, quello che vota Lega e Pdl, dovrebbe avere in cuore come principale punto la lotta alla mafia. Eppure, nell’ultima settimana di campagna elettorale Dell’Utri, dichiara che Vittorio Mangano è un eroe e che i pentiti non sono sani di mente. Mangano è un uomo condannato da Falcone a tre ergastoli per mafia. Subito Berlusconi offre sponda alle affermazioni sconcertanti di Dell’Utri.

Nel frattempo Veltroni caccia dalle liste tutti i candidati in odore di mafia e dichiara guerra alle cosche. A Napoli adirittura nomina, uno per uno, i nomi dei clan e annuncia che lo Stato sotto il suo governo gli farà guerra. Io credo che ogni altra interpretazione del voto non possa prescidere da un’analisi di questi fatti. Sembra che il voto sia stato pre-razionale, pre-giudiziale. Ma e’ cosi’?

Io penso di no. Esiste una razionalita’ profonda nelle decisioni di massa. Non che sia condivisibile. Voglio solo dire che e’ possible comprendere queste scelte con la ragione. E allora cosa. Perche’ al nord ingoiano il rospo della mafia e al sud ingoiano il rospo dei leghisti pur di votare a destra?

Veltroni nella sua campagna elettorale si e’ appellato al coraggio di intraprendere, di creare lavoro e innovazione per affrontare le sfide della globalizzazione. Ha voluto usare il linguaggio della sfida agli italiani. Una sfida entusiasmante che in alcuni tratti mi ha commosso perche’ stimolava la mia voglia di fare e di dare per il mio paese. Si e’ persino richiamato alla creativita’ dell’Italia anni cinquanta. Ma a chi si rivolgeva questo messaggio?

L’Italia degli anni Cinquanta non aveva nulla da perdere. Il coraggio era l’unica risorsa disponibile. Oggi non e’ cosi’. Quelli che sentono di non farcela, quelli che non hanno risorse da spendere sul mercato del lavoro per farsi strada, quelli che competono con i cinesi nel fare mattoni, i laboratori tessili o le piccole aziende manifatturiere che non hanno idea di cosa sia l’inovazione e usano ancora macchine di 30 anni fa, non potevano accettare questa sfida. E allora, paradossalmente Lega e PdL hanno realizzato nel voto l’alleanza di padroncini e operai che il PD predicava.

Dal loro punto di vista e’ piu’ facile pensare di rifare la Cina qui che correre piu’ forte della Cina. Chiaramente l’interesse a lungo termine del paese non coincide con il loro interesse immediato. Ma in fondo, dell’interesse a lungo termine del paese che gliene frega a loro se rischiano di fallire o perdere il lavoro domani?

Dicevo e’ piu’ facile rifare la Cina qui dal loro punto di vista. Certo: evadere le tasse per fare margine senza aumentare la produttivita’; avere leggi sulla sicurezza del lavoro molto permissive e poter sfruttare liberamente l’extracomunitario irregolare per abbattere i costi e fare concorrenza sleale con i concorrenti europei. Tremonti il protezionista. Il localismo difensivo. La xenofobia pelosa di chi ha la badante peruviana.

Gran parte dell”italia, al nord e al sud, ha campato e si e’ arricchita depredando le finanze pubbliche. Al sud impeghi pubblici (enti per l’agricoltura con 4 trattori e 400 trattoristi), al nord finanziamenti pubblici per le aziende e svalutazione della lira che tramite l’inflazione da l’illusione di avere soldi da spendere ma alla lunga trasferisce silenziosamente quattrini dai poveri ai ricchi, dalle finanze pubbliche agli imprenditori. E poi le finanze pubbliche erano depredate per garantire servizi, pensioni e prebende sopra le nostre possibilita’. Tutti hanno usufruito di questa sciagura, anche gli operai. Era cosi’ facile far soldi negli anni 80 craxiani..Ecco perche’ votano a destra.

E adesso? Non lo so. Temo che la spirale della decadenza non sia facile da interrompere proprio perche’ genera fenomeni regressivi. Ci si avvolge nella paura e si cercano, anche violentemente, soluzioni semplici. Intanto ci si scava la fossa.

L’altro ieri ho visto su internet l’ultima puntata di Anno Zero in cui il commercialista di Berlusconi (alias, Giulio Tremonti) che a destra spacciano per economista non avendo di meglio, ci illuminava sui pericoli presenti e futuri della globalizzazione.

Suoi interlocutori erano Fausto Bertinotti, Antonio Boccuzzi (l’operaio sopravvissuto all’incidente della Thyssen e ora candidato per il PD, che bravo!) e Matteo Colaninno.

Il Fausto e GT andavano d’amore e d’accordo e si vedeva che facevano una fatica enorme a trovare punti di disaccordo. Chissa’ che non li vedremo assieme prima o poi, il comunista e il condonista.

Be’, il tema non e’ nuovo. Tutti ci ricordiamo il movimento No Global e le sue rivendicazioni. E ci ricordiamo anche il G8 di Genova. Ai quei tempi i principali commentatori economici e formazioni politiche di centro e di destra trattavano con sprezzante ironia quelle preoccupazioni.

Oggi tutti prendono molto sul serio le parole di GT e il CORSERA vi dedica ben due editoriali di fila, prendendone piu’ o meno le distanze, ma facendo passare il fiscalista per un fine intellettuale. Oggi il centro-destra vuole imposessarsi di questi temi e farli propri, proponenedo le sue soluzioni, facendo l’occhiolino alle paure della piccola borghesia e degli imprenditori-nani. Improvvisamente queste sono cose ben dette, o perlomeno da tenere in considerazione.

Quello che ci importa pero’, e’ di capire qual’e’ la diagnosi e quale la cura proposta. E qui cominciano i dolori. Da un lato perche’ la terapia e’ una presa in giro, come quelle pozioni che i ciarlatani vendevano nel far west per combattere tutte le malattie conosciute e sconosciute, e dall’altro perche’ il nostro Colaninno ha mostrato una pochezza sconfortante nel contrastare queste bizzarre tesi.

Ma focalizziamoci sugli elisir confezionati dal ciarlatano di Sondrio. Le idee sono vaghe e per questo incomprensibili.

Per prima cosa occorre precisare che la globalizzazione non e’ un fenomeno moderno. Vi rimando a questi articoli (1 e 2) per farvi un’idea di come l’espansione dei commerci mondiali abbia influito gia’ dal rinascimento, non solo sul benessere economico delle popolazioni ma anche sulla diffusione delle malattie. Gia’ nel XVIII secolo le nazioni del mondo erano cosi’ interconnesse da rendere necessario lo sviluppo di un sistema di misura internazionale per regolare i commerci e i prezzi.

Quello che e’ veramente nuovo oggi e’ la portata del processo e la velocita’ delle transizioni. I trasporti e le comunicazioni moderne consentono di mobilizzare merci, persone e informazioni con costi, velocita’ e sicurezza diverse centinaia di volte superiore a quella a cui eravamo abituati solo 100 anni fa. Chiaramente ogni rivoluzione tecnologica fa le sue vittime e scatena paure, che non si devono sottovalutare. Chi subisce la globalizzazione sono i piu’ deboli, quelli che hanno avuto meno occasioni nella vita, e che oggi sentono di non avere strumenti per competere a livello mondiale. Fino a qualche hanno fa eravamo leader mondiali nella produzione di mattoni. Oggi i cinesi ci surclassano per costi e per quantita’ di prodotto.

Secondo Bauman, (“Dentro la globalizzazione”) queste paure generano meccanismi regressivi di “localizzazione” che si manifestano nella ri-scoperta delle comunita’ locali e delle tradizioni, in un rifiuto’ della modernata’, nella chiusura verso l’altro, in una costante e irrazionale diffidenza sociale, in un mal determinato senso di insicurezza.

Non stupisce che l’elisir economico di GT, amico intimo della Lega Nord con i suoi richiami alla tradizione locali, allo “statevene a casa vostra”, si collochi in questo filone localista.

Ci viene proposto di imporre dazi e balzelli alle merci importate, ridurre gli scambi e i commerci con i paesi in via di sviluppo, magari mettere delle quote, come per il latte in Europa. Ma solo temporaneamente, per prendere tempo. Chiaramente non ci viene indicato per quanto tempo sarebbe necessario restringere l’accesso dei nostri mercati, chi dovrebbe, assieme all’Italia fare questa scelta, e cosa dovremmo fare, in questa supposta tregua della competizione globale, per metterci al passo. In assenza di queste indicazioni l’elisir di Tremonti e’ una pozione avvelenata, che ci fara’ accumulare ulteriore ritardo e serivra’ a proteggere ancora di piu’ chi sta gia’ nel fortino delle rendite di posizione per poi precipitare improvvisamente in un baratro ancora peggiore di quello che egli prospetta per l’oggi. E’ una versione camuffata della svalutazione della liraper favorire le esportazioni ai danni del debito pubblico attuata dai governi Craxiani degli anni ’80. Ancora oggi paghiamo i meravigliosi effetti a lungo termine di questi provvedimenti.

Se fossi stato a quel dibattito televisivo avrei volentieri fatto notare al Grande Stratega del centro-destra che l’India e la Cina assieme fanno 3 miliardi di persone, circa 10 volte la popolazione americana e 4 volte la popolazione Europea. I loro mercati crescono ad una velocita tra il 5% e il 10% annuo mentre in Europa e Stati Uniti, negli ultimi anni si brinda se si raggiunge il 2%. Se India e Cina rispondessero alla nostra politica dei dazi con la stessa moneta alla lunga seremmo noi a pagarne le salate drammatiche conseguenze. Mentre noi ci gongolavamo con le invettive di Bossi e Tremonti contro i cinesi, i tedeschi, gli inglesi e gli americani aprivano imprese e sviluppavano commerci con quei mercati in espansione.

Avrei anche ricordato al nostro GT che i dazi europei sui prodotti tessili cinesi sono stati eliminati solo da qualche anno e durante quel periodo non c’e’ stata certo una rivoluzione tecnologica o commerciale significativa del settore in Italia.

Avrei volentieri detto che il modo migliore (l’unico?) di difenderci dall’invasione asiatica e’ di correre piu’ forte di loro tramite la ricerca e l’innovazione e la qualificazione del nostro capitale umano. Ma in Italia un diplomato guadagna come un laureato e questo e’ il segno piu’ tangibile del fatto che nel nostro paese le competenze tecniche non sono un valore richiesto dal sistema produttivo.

E allora avanti, continuiamo a competere con i cinesi nella produzione di mattoni, e mettiamo anche i dazi per far finta che noi siamo piu’ bravi a cuocer la terra.

Ma almeno siamo consapevoli che questa strategia e’ come metter sull’uscio di casa un sacchetto di riso per arginare la marea che avanza.

La retorica recente, dopo numerosi decenni di scontro tende ad indentificare il datore di lavoro (il proprietario dei mezzi di produzione) e il lavoratore dipendente, il prestatore d’opera, sotto lo stesso ventaglio di bisogni e ambizioni, trascurando le disuguaglianze economiche sempre piu’ macroscopiche che si traducono inevitabilmente in disuguaglianze di opportunita’ e liberta’.  Leggi il resto dell’articolo..

La litania di un paese impoverito, con l’acqua alla gola, il lamento di una società stanca e demoralizzata, la crisi della quarta settimana sono entrati nel vocabolario politico quotidiano. Banca d’Italia, attraverso il Dott. Draghi, ci fa sapere che i salari italiani sono tra i più bassi d’Europa; Montezemolo ammonisce i politici: “l’Italia é in crisi, non mentite agli italiani”; il partito di Berlusconi come al solito, ci racconta la storia delle tasse che hanno messo in ginocchio l’Italia, e fa l’occhiolino al suo elettorato di SUVviti; Gli economisti ammoniscono che la spesa pubblica é in continuo aumento e che lo stato si mangia la nostra fetta di ricchezza. Nel frattempo l’Italia del Centro-Nord si avvicina alla piena occupazione e i salari non crescono. Ci dicono che la produttività del paese non aumenta e allora anche i salari sono fermi. Giusto. Ma siamo sicuri che questo sia tutto? Che non ci sia altro da dire? Che qualcosa in Italia non venga costantemente oscurato? Basta farsi un giretto per il centro di Milano, tra negozi di lusso e fichetti, manager, e signore in passeggiata per farsi venire qualche dubbio. Non ci si spiega perché, se tutti veramente siamo in crisi, i prezzi continuino a salire. C’é qualcosa che non torna nel nostro discorso pubblico. La crisi é per tutti o solo per qualcuno? Se é vero che lo Stato si mangia la nostra ricchezza, la mangia per tutti uguale o per qualcuno la mangia di più? In Italia i soldi, sono finiti o sono spariti? Nel senso che qualcuno li ha ma non ce lo vuole far sapere? E perché le vendite di beni di lusso (gioielli, yacht, auto di pregio, design e arredamento) sono in continua inarrestabile crescita?

Allora non resta che fare un giretto in rete per cercare qualche risposta, certamente parziale.

La prima scoperta interessante é questa. Non tutti in Italia si sono impoveriti. Anzi, c’é chi ha tratto da questi anni di lacrime e sangue notevoli benefici economici. Oggi il 10% degli Italiani possiede il 50% della ricchezza nazionale e i loro patrimoni sono in continua inarrestabile crescita. Gente produttiva, si dirà. Che la produttività media di un paese non aumenti non significa che questo sia vero solo per alcune selezionate categorie. D’altronde il 10% delle famiglie si intasca il 40% del reddito prodotto: segno che chi ha fatto la scelta giusta viene premiato dal “Mercato”. Ineccepibile.

Eppure, già dal ’95 le disuguaglianze di reddito in Italia erano solo leggermente inferiori a quelle degli Stati Uniti, il Paese con maggiori disuguaglianze economiche, e superiori a quelli di Regno Unito, Francia, Spagna, Australia, Irlanda. I paesi con reddito più omogeneo sono i quelli scandinavi (Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia), tutti paesi che hanno visto il loro PIL e la loro produttività crescere sostanzialmente negli ultimi 10 anni. Insomma, in un paese dove la meritocrazia e’ un piatto esotico dovremmo avere meno disuguaglianze economiche rispetto a paesi in cui la retribuzione e il reddito sono maggiormente ancorati alla produttività e non alle rendite. Eppure cosi’ non e’.

Un recente rapporto di Banca d’Italia ci rivela che i) la ricchezza in abitazioni delle famiglie italiane è pari a quattro volte il reddito disponibile, un valore simile a quello del Regno Unito, inferiore a quello della Francia e superiore a quello di Germania e Stati Uniti; ii) Le attività finanziarie sono quasi quattro volte il reddito delle famiglie in Italia, un rapporto di poco inferiore a quello degli Stati Uniti e del Regno Unito ma superiore a quello di Germania e Francia.

Chiaramente c’è una ricchezza che non si misura solo coi redditi da lavoro ma che sta nelle cas(s)e degli italiani, nei patrimoni familiari e nelle rendite ed è forse sufficiente ricercare disomogeneità nella distribuzione di queste ricchezze per spiegare gran parte della disuguaglianze economiche del nostro paese.

Chi sono i nuovi ricchi? Questo articolo dell’Espresso ne fa un identikit impietoso. Sono notai, commercialisti, avvocati, i grossisti, imprenditori del settore sanitario che approfittano di leggi medievali per fare profitti in mercati iper-protetti da regole d’accesso e regolazione dei prezzi che dir corporative si rischia di far complimenti (ricordate le “vibranti proteste” contro le class actions?), e che si sono avvantaggiati dell’indulgenza della destra per accumulare capitali illegali con l’evasione fiscale. Questa gente si mangia i nostri redditi. E non solo. Il privilegio é ereditario in un paese, il nostro, senza alcuna mobilità sociale. I figli dei figli dei notai fanno i notai, e così via e l’accesso alle professioni e’ rigorosamente ristretto (siamo matti, la competizione?). Ma non basta, recentemente La Repubblica ha riportato che il reddito di un laureato figlio di operai é tra il 20% e il 40% inferiore a quello di un laureato proveniente da una famiglia di professionisti o dirigenti, a parità di tutte le altre caratteristiche. Insomma carriera la fanno soltanto i “figli di..”

E poi ci sono le tasse. La progressività delle aliquote si è andata via via perdendo in Italia. Dal 1973 le classi di reddito sono passate da 32 a 5 (senza contare il tentativo di Mr B di ridurle a 2 nel 2004). Anche il rapporto tra lo scaglione massimo e quello minimo di imposta è sceso precipitosamente. Il peso relativo della pressione fiscale e’ via via sceso per i più ricchi mentre gli altri hanno pagato dolorosamente sempre di più.

Insomma queste differenze non sono generate dalla creativita’ e dall’iniziativa di individui piu’ propduttivi, efficienti, combattivi ma dal privilegio e da leggi feudali che proteggono questa moderna aristocrazia.

PS: Uno potrebbe chiedersi cosa ci sia di male che un imprenditore della sanità faccia un sacco di quattrini. Il male é questo: in quale paese liberale un imprenditore che vende un prodotto non viene pagato dall’acquirente ma dallo Stato? Il salumaio mi vende il prosciuttino e io mando il conto al mio vicino? Ma dove si é mai visto? É proprio per questo che in Lombardia i costi della sanità sono schizzati alle stelle da quando la regione ha deciso di accreditare un numero sempre maggiore di strutture private. E pensate a quello che succede in Sicilia per la stessa ragione. Due regioni così diverse accomunate da un analogo approccio alla salute pubblica (e ai privati interessi). Non voglio neanche discutere dei criteri di accreditamento. Poi accade che le statistiche nazionali ci raccontino che la spesa pubblica é in continua crescita, e a noi capita di pensare “all’esercito di fannulloni del comparto pubblico”. Anche a me, che venivo pagato 850 euro netti al mese quando facevo lo specializzando in Italia. E intanto gli imprenditori del comparto sanitario ingrassano con i soldi pubblici e ridono di noi.


La recente proposta di Walter Veltroni di innalzare il salario minimo legale solleva un tema controverso.

Se questo tipo di interventi legislativi autorizzino i lavoratori a basso reddito a sperare in un sospirato aumento di reddito o piuttosto determini una riduzione del tasso di occupazione e’ argomento assai dibattuto.La decisione da parte di un imprenditore di assumere un lavoratore dipende, almeno in parte, dal suo costo.

E ancora: ammesso che l’introduzione del reddito minimo non abbia un influsso negativo sul tasso di occupazione, questo provvedimento determinera’ un’aumento del potere d’acquisto delle classi piu’ deboli o il conseguente rialzo dell’inflazione sara’ tale da annullarne l’effetto?

Queste domande sono di interesse centrale per la regolamentazione del mercato del lavoro nella maggior parte dei paesi industrializzati.

In questo articolo vorrei discutere la prima delle due questioni, essendo essa determinate per qualsiasi decisione di interesse pubblico.

Sebbene molti economisti di destra siano tenacemente avversi all’idea di introdurre un salario minimo legale, l’evidenza empirica ha fornito risultati contrastanti.

La recente introduzione del National Minimum Wage (salario Minimo Nazionale)  ha revitalizzato in Inghilterra un analogo dibattito. Una prima regolamentazione nazionale del salario minimo e’ stata introdotta in quel paese nel 1999 ed e’ stato successivamente  innalzato nel 2000 e nel 2001. Ad oggi il salario nazionale minimo inglese corrisponde a 4.10 sterline all’ora.

L’Ingilterra, e i paesi anglossassoni in genere, hanno una straordinaria tradizione di analisi sociale ed economica. Numerose indagini vengono finanziate dallo Stato per monitorare l’andamento economico del paese e il funzionamento delle leggi e dei provvedimenti governativi. Il caso inglese e’ particolarmente interessante perche’ sono disponibili dati dettagliati e recenti riferiti sia al periodo precedente che a quello successivo all’entrata in vigore del salario minimo offrendo un’ottima opportunita’ per un’analisi valida ed accurata.

Utilizzando i dati disponibili una recente indagine (Stewart, 2004) ha dimostrato che sia l’introduzione che l’innalzamento del salario minimo legale a livello nazionale non hanno prodotto alcun effetto negativo sul livello di occupazione, per ogni gruppo demografico studiato.

Sono queste indicazioni direttamente applicabili al caso italiano?

Per contestualizzare la discussione alla realta’ italiana, e’ utile sottolineare che il nostro paese si avvia ad una fase di piena occupazione dove i tassi di disoccupazione si registrano intorno o al di sotto del 5% e dove molti datori di lavoro devono rivolgersi alla manodopera straniera per colmare i ranghi. A questa tendenza non si allinea il meridione, dove pero’ sussitono elevati tassi di occupazione sommersa o nel settore informale.

Il basso tasso di disoccupazione al Centro-Nord del paese si realizza comunque in condizioni di bassa occupazione, indicando che molti italiani con scarse prospettive occupazionali preferiscono non cercare un lavoro probabilmente ritenendolo troppo poco profittevole. Questi disoccupati volontari non rientrano nelle statistiche di disoccupazione. In queste condizioni non e’ totalmente insensato supporre che nel nostro paese il salario minimo legale possa addirittura mobilizzare questi cittadini inattivi e richiamarli nella forza lavoro.

Certamente le condizioni del mercato del lavoro nel Centro-Nord e nel Meridione d’Italia sono cosi’ differenti che e’ difficle pensare ad un effetto omogeneo del salario minimo nazionale su tutto il territorio italiano.

Indipendentemente pero’ da qualsiasi preliminare considerazione di efficacia degli interventi legislativi, l’Italia deve dotarsi di un sistema di monitoraggio paragonabile a quelli dei nostri competitors piu’ avanzati che consenta di valutare, di volta in volta, gli effetti delle decisoni prese.

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